Sport e Business: elogio degli Ultras

Il bomber nigeriano e il gol Gli ultrà del Varese lasciano lo stadio

VARESE – Mai abituarsi ai paradossi e alle isterie del calcio italico, accade sempre qualcosa capace di aggiornare la galleria degli orrori. E così, mentre a Londra la fiaccola olimpica mandava i suoi ultimi bagliori, allo stadio «Franco Ossola» di Varese andava in scena una commedia dell’assurdo in cui il centravanti della squadra di casa – fin lì ricoperto di insulti a sfondo razziale – segnava un gol e gli ultrà della Curva anziché esultare abbandonavano lo stadio per protesta. Dulcis in fundo, la società dopo la partita diramava un asciutto comunicato in cui sosteneva che il giocatore domandava scusa ai tifosi.
Ebagua va in gol e i tifosi lo fischiano

In ballo c’era niente più e niente meno che il secondo turno di Coppa Italia, in cui il Varese (serie B) si è trovato di fronte i dilettanti bergamaschi del Pontisola, che erano riusciti pure a passare in vantaggio. E allora perché tanto accalorarsi? Il fatto è che in campo con la maglia biancorossa dei padroni di casa c’era Giulio Osarimen Ebagua, attaccante nigeriano in Italia da quando è bambino, fisico e carattere esuberanti. Giulio non è giocatore che rispetta il «codice d’onore» dei curvaioli: non bacia la maglia, non fa giuramenti, non fa mistero di voler puntare al grande palcoscenico del calcio. Dopo due stagioni trionfali a Varese, l’anno scorso si è giocato la chance al Torino; è andata male ed è tornato coi biancorossi.

È stata la sua condanna. Al fischio d’inizio domenica sera – prima partita ufficiale della stagione – la Curva Nord ha cominciato a fischiarlo, insultarlo, a innalzare i ben noti «buuu!». «Il razzismo non c’entra l’abbiamo fatto perché Ebagua ha mancato di rispetto alla città» scriveranno poi gli ultrà nei loro forum. Sarà, ma guarda caso gli insulti sempre lì andavano a mirare, al colore della pelle, all’Africa. Tanto che anche la società ha già ammesso che il Varese verrà multato dalla Federcalcio per i cori razzisti della tifoseria.
Si arriva di questo passo al minuto 28 della ripresa quando – con il Varese sotto di un gol – Giulio Ebagua spedisce in rete la palla del pareggio. Incurante di ogni diplomazia il giocatore corre sotto la Curva che lo sta svillaneggiando, si porta l’indice alla bocca, urla parole irriferibili, alza anche il dito medio finché un compagno lo porta via di peso. Dagli spalti ripiegano gli striscioni e abbandonano la scena. Gli altri settori del «Franco Ossola», per la verità, intonano cori a favore del giocatore. Mica è finita però, perché a partita conclusa (vittoria 2 a 1 del Varese), gli ultrà assediano gli spogliatoi, pretendendo un «chiarimento» e il pullman della squadra deve allontanarsi protetto dalla polizia.

Mai abituarsi all’abisso culturale dei giornalisti italiani, quando credi abbia giunto il limite, provvederanno ad inabissarsi un po’ di più. Corrono sempre come adolescenti innamorate in difesa dei loro beniamini africani, e questo nasconde una certa patologia mentale che qui non approfondiremo.
E’ ovvio che la maggioranza dei lettori di certi articoli si accoderà al tono scandalizzato del pennivendolo di turno (del resto, e’ così che e’ stato insegnato loro, e’ la legge del gregge).
E’ sempre piú comodo pensare con la testa altrui, anche se vuota, che con la propria.
Per quanto tempo ancora dovremo leggere questi prezzolati giornalisti pontificare su cose che non comprendono, o che comprendono e fingono di non capire? Come puó un individuo mediamente intelligente baloccarsi con frasi del genere: “così, mentre a Londra la fiaccola olimpica mandava i suoi ultimi bagliori”, ma quali bagliori, se non quelli della pioggia di denaro che ricopre un evento che nulla, ha a che vedere con le Olimpiadi antiche.
Non ci sorprende che lo spettacolo di milioni di cerebrolesi inebetiti da falsi eroi in tenuta sportiva, piaccia ai cantori dell’uomo nuovo, l’uomo che deve consumare (e anche lo sport e’ divenuto prodotto di consumo), ma non deve pensare. Guai se dovesse pensare.
E’ piuttosto chiaro, e anche comprensibile dal loro punto di vista, che i fautori dello sport-business adorano lo sport-spettacolo americano, lo sport consumo, e non la genuina ‘fede’ degli Ultras, fenomeno sconosciuto nel Nordamerica delle franchigie nomadi.
E’ gente che non consuma ma crede in qualcosa. Una fede male espressa, una forza che dovrebbe essere riposta in ideali piú alti, ma nondimeno, una fede. E i padroni del vapore odiano chi crede, perchè chi crede in qualcosa e’ pericoloso e, anatema per loro, da’ un valore piú elevato all’oggetto della sua fede, rispetto al denaro. Questo non viene perdonato nell’epoca “dell’oro-vale-sopra-ogni-altra-cosa”.

Il fatto che gli Ultras esprimano male un giusto istinto di appartenenza e di valori, il fatto che questi istinti si manifestino in espressioni di violenza, non significa rappresentino la parte sbagliata. Non e’ la violenza a definire ció che non e’ giusto , e’ spesso il contrario; sono spesso le società pacifiche quelle responsabili dei peggiori crimini. Il male non e’ la violenza, che e’ anzi spesso un sintomo di vitalità di coloro che la esprimano, siano essi individui o società; ma l’indifferenza: le società muoiono di indifferenza.
Ed e’ di indifferenza che la nostra civiltà e’ malata.

Ma la società indifferente e’ anche l’ideale società del consumatore per eccellenza: la società egoista e spinta a riempire il vuoto della propria indifferenza con il compulsivo richiamo a consumare. Consumare tutto, senza amare niente. Consumare tutto perchè nulla ha valore tale, da poter essere conservato. Da usare la violenza, per conservarlo.

Ed e’ qui che si inserisce il concetto di ‘sport-business’, quello cui abbiamo assistito con gli ultimi Europei di calcio e con le Olimpiadi: masse inebetite di spettatori-consumatori adoranti idoli estemporanei. Consumatori che consumano il prodotto-atleta. Ombre che adorano ombre.

E ovviamente, in questo contesto mal si concilia la presenza degli Ultras. Non perchè a giornalisti e padroni dello sport interessi il razzismo o altro, ma perchè disturbano il business.
Perchè in un certo senso, come ogni ‘valore’, il razzismo, ovvero l’idea che sia il sangue e non il denaro o l’interesse a definire l’appartenenza, disturba il business.

1 comment

  1. Davide Vacca agosto 17, 2012 10:20 pm  Rispondi

    Non sono certo un tifoso del calcio; ma è mai possibile che in tutte le squadre debba esserci almeno un negraccio ?

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